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mercoledì 4 gennaio 2012

Jack Kerouac è morto

Jack Kerouac è morto, eppure lo sento particolarmente vicino a me. E questo nonostante le nostre due generazioni non si siano mai incrociate. Certo, non ho mica detto di essere in qualche modo un suo “alter-ego”, dato che non avrei le fondamenta per dirlo.
Primo, qualche caso studiato da Ian Stevenson e la ferma convinzione per i Drusi che essa sia reale non mi hanno del tutto convinto che la reincarnazione esista. Tra l’altro lui è morto nel ’69 e io sono nato nell’86 e 17 anni mi sembrano un po’ troppi per reincarnarsi, dato che quei mattacchioni dei Drusi stessi credono che essa sia istantanea, o almeno così dovrebbe essere.
Secondo, lui è diverso da me. Abbiamo una sensibilità comune e un modo comune di vedere le cose, forse sento più lui vicino a me che qualsiasi altra persona io abbia mai conosciuto da vivo (e lui da vivo non l’ho mai potuto conoscere). Eppure lui viveva negli anni ‘50, io vivo in questi “cazzo di anni zero” come dice la buon’anima di Brondi.
Terzo, lui ha lasciato l’università e ha fatto tutti i tipi di lavori possibili, seguendo le orme di Jack London. Viveva alla giornata e frequentava amici poeti e circoli letterari. Era mezzo cristiano e mezzo buddista. Ha vissuto sulla strada e per la strada. Io sono ancora uno studente, non ho nessuna esperienza lavorativa che non sia dare ripetizioni d’inglese a mio fratello e disegnare teste di cavallo con Photoshoppo, non seguo le orme di nessuno e tantomeno le mie, sono un quarto cristiano, un quarto animista, un quarto gustavorollista e un quarto nonsocosa, non ho amici poeti ma solo amici “aspiranti poeti”.
E quel sogno coast-to-coast da New York a San Francisco ancora continuo a sognarlo (sennò che sogno sarebbe se poi si avvera?).


Non so bene come mi nacque questa passione per Kerouac. Mi ricordo che comprai i Vagabondi del Dharma nel 2006 senza sapere nemmeno lontanamente cosa fosse la beat generation e solo perché in quel momento avevo voglia di leggere qualsiasi cosa di un autore che si chiamasse “Jack” solo perché avevo appena letto i racconti dei mari del sud di Jack London e stavo già per dichiarare a cielo aperto il mio ménage à trois tra me, lui ed Ernest Hemingway.
Quando comprai quel libro mi innamorai. Ancora oggi questo è uno degli episodi che mi fa credere che il destino esiste, e se una cosa deve succedere succede. Potevo comprare un giallo di Agatha Christie solo per capire una volta per tutte che tipo era questo Poirot, potevo comprare una qualsiasi pubblicazione su San Pio da Pietrelcina per conciliarmi il sonno, un romanzo di Follett giusto per dimostrare a me stesso che 37658997 pagine lette in una settimana potevo sostenerle anch’io, o perché no un qualsiasi libro sulla cucina del pesce spada e derivati da regalare a mia madre o a qualche zia.
E invece macché. Quel pomeriggio comprai “I Vagabondi Del Dharma”, classe 1958. Lo leggo continuamente (soprattutto i capitoli dal 15 al 19) ma ogni volta ho sempre l’impressione di non averlo compreso appieno. È proprio questo, secondo me, che rende speciale un libro.

domenica 16 ottobre 2011

Cos'è per voi il viaggio?

Oggi pubblico un nuovo sondaggio: "cos'è per voi viaggio?"
Cosa significa spostarsi?
Che significato date a questa parola?
Solo un modo per muoversi da una parte all'altra? Qualcosa che arricchisce la vostra vita, o una sorta di metafora della vita stessa? Amate il viaggio? O credete che sia solo un inutile fuggire senza senso, tanto poi la "casa" ti richiama indietro?


Siete più EST o siete più OVEST? Attaccati alle vostre radici, alla vostra città natale, ai vostri amici e alle vostre famiglie, oppure non vedete l'ora di poter mollare tutto e partire, chissà per dove, all'avventura, il più lontano possibile e senza uno straccio di piano?
Oppure siete come me, cioè entrambe le cose?
Bruce Chatwin ha viaggiato tutta la sua vita e alla fine non sapeva più dove fare base. Aveva bisogno di una casa dove stare, tra un viaggio e l'altro. Pensò alla Francia, ad un'isola della Grecia e ad altre alternative tradizionali, ma alla fine decise di fare base a Londra. 
Casa, dopotutto, è dove sono i tuoi amici.
Io la penso come lui. E voi?
Il sondaggio sarà aperto fino a fine Novembre: non vi resta che cliccare sulla risposta, o le risposte, che a voi sono più congeniali: trovate i pulsantini a destra del blog, sotto la Playlist.
Fatemi sapere cosa ne pensate!;-) 

sabato 15 ottobre 2011

Le nuvole sono un po' come noi

Il colore delle nuvole al crepuscolo non è mai uguale. A volte sguazzano cirri striate che si afflosciano come corde di un violino esplose durante un concerto, e si stagliano in un blu profondo e infinito, scorrendo lontane mentre sei lì a chiederti "dove andranno mai a finire quelle simpatiche striscioline bianchicce?


Altre volte ti ritrovi attorniato da cumulonembi feroci e minacciosi, tutti neri come la cenere ma molto più densi nell’aspetto. Ora volano qui, ora volano lì, belli tranquilli, tuonando e passandosi tuoni e lampi come in un gioco innocente tra bambini che si lanciano un frisbee correndo sul bagnasciuga.
I nembostrati rossi avvolgono il sole in un abbraccio rovente, sembrano quasi accarezzarlo mentre tutt’intorno il cielo si trasforma in un manto apocalittico, instabile tra il chiarore del mattino e le oscurità notturne.


Avanzano lentamente… Giochi di luce ed ombre, lenti, ammalianti, sospiri inquieti, abbracci di vita che ci guarda dall’alto. Puoi sentire un impercettibile fruscio tra quegli ammassi morbidi e chiari, che si spandono dolcemente sopra la tua testa. Un fruscio che deriva direttamente dalla tua anima.


E’ strano vedere come tutte le persone non troppo impegnate nell’affanno della vita si dedichino per un momento ad osservare il tramonto. Non è difficile capire perché. Quando l’orizzonte si fa rosso basta solo dimenticarsi per un attimo di essere sé stessi e l’abbandono a quel rossore penetrante diventa irresistibile. Ci si affloscia timidamente sul cornicione del balcone, si incrociano le gambe e senza accorgersene nemmeno si diventa un tutt’uno con il sole, con il cielo velato di porpora e con le nuvole che lo avvolgono. Se in quei rari e brevi istanti si riesce a dimenticare tutto, basta davvero poco per diventare parte di quel mistero seducente che è la morte del giorno.

Si, il crepuscolo è qualcosa di affascinante per tutti: affascina perché racchiude in sé il mistero delicato del passaggio tra il giorno e la notte, tra l’oggi e lo ieri, tra la giovinezza e la vecchiaia, tra ciò che è stato e ciò che non sarà più. Quando si è piccoli si crede che sia l’oceano a mangiare il sole: lo si vede abbassarsi sempre più e ci si chiede come faccia quel pallone incandescente a fare quella misera fine, 16 milioni di gradi kelvin spenti in una massa d’acqua sterminata. Così l’unione tra il sole e il mare genera la notte; è il mare a rubare il sole al cielo, glielo strappa, con dolce e velata violenza, in un abbraccio intenso e appassionato. Il cielo, rimasto solo, si tinge di scuro, come l’anima di una persona alla quale viene strappato ciò che possiede di più prezioso. 


Le nuvole non hanno ruolo in tutto questo. Loro osservano, scrutano, passano incuranti da una parte all’altra. Alcune partecipano a questo gioco di luci, si tingono di rosso e si intromettono alla forte emozione del sole, altre cercano di coprirlo, di strapparlo vanamente a quell’abbraccio stregato. Altre preferiscono la regola dell’indiscrezione, viaggiano lontane tingendosi di scuro precludendo già a quello che avverrà, diventando un tutt’uno con il dolore del cielo, spogliato del suo bene.
Le nuvole sono un po’ come le persone, o come l’anima delle persone: bianche, rosse, scure, tutte diverse, ognuna che va avanti per la sua strada, alcune incuranti delle loro compagne, altre che preferiscono seguire il branco e unirsi a lui in una danza lieve, ora dolce, ora più violenta, ma sempre lieve, lieve, lieve e lenta.
Le nuvole sono un po’ come i sogni: ora piccole, ora più grosse, si intrecciano tra loro e sembra che possono andar avanti anche all’infinito, ma poi, stanche, si allontanano o svaniscono nel nulla, morendo nel blu infinito, nel rosso del crepuscolo.


Le nuvole sono un po’ come noi...

venerdì 31 dicembre 2010

Il vero amore è nei cani vagabondi

L’altro giorno vedo un cane che mi attraversa la strada di corsa come se un fantasma lo stesse rincorrendo ma invece no, era lui a rincorrere – rincorrere l’amore negato? Scappava come una furia, yuuh io camminavo con la mia solita espressione scazzata e leggermente malinconica verso casa e me lo vedo piombarmi contro di corsa, poi mi supera e sembra che stia inseguendo l’auto che fugge nella notte di fronte a me… Una mattina ero in macchina e vedo un cane che inizia a correre come un forsennato, poco prima era passato un treruote, lui scappa più veloce del suono e ad ogni curva che faccio con la macchina, svolto da Viale Magna Grecia per raggiungere Via Cesare Battisti e lui è là che abbaia e scalpita e ulula invettive di supplichevole speranza e desiderio d’amore… Diventa palese il fatto che sia stato abbandonato o sia stato scaraventato giù da un’auto in corsa e ora cerchi disperatamente di raggiungerla e che probabilmente il fatto di raggiungerla sia diventata l’unico immortale sola ragione della sua vita nel momento in cui corre…ci sono solo le zampe che lo separano dall’asfalto, c’è solo l’asfalto che lo separa dalla sua vita e lui corre e non pensa nient’altro che a correre (anima persa nel mondo che rifugge ogni cosa perché ne ha paura) fin quando non capisco che sta rincorrendo proprio il treruote che mi era passato davanti poco prima, alla guida c’è un vecchio pescatore in canottiera sporca di caffè (riesco ad intravederla dal finestrino) con pochi capelli bianchi appassiti e pelle rugosa e umida e quel vecchio che alla vista di noi esseri umani ipocriti e senz’anima sembra essere semplicemente un “vecchio” è tutta la vita del povero piccolo speedy gonzales che corre a perdifiato più veloce della mia macchina e di quella vecchia carretta messa assieme, arrivo a 80 km orari ma poi devo fermarmi ai semafori e nel frattempo lui non è diminuito di un passo e non si è stancato ed è già arrivato… il pescatore gli accenna un movimento con la mano e con il capo, sembra dirgli “salta su vecchio mio” e quello salta davvero, spicca un balzo che si ritrova in men che non si dica sul carretto ed è salvo e Dio lo benedica per il resto dei suoi giorni…



Nella stazione di Bari c’è una scritta “Il vero amore è nei cani vagabondi” e se prima mi sembrava un’insulsa frase ipocrita e sofista di qualche punkabbestia troppo innamorato del bastardo che si porta appresso per riuscire ad apprezzare ed amare allo stesso modo i suoi simili, ora sto iniziando a pensare che sia vero… Negli occhi di ogni cane vagabondo c’è amore. Non lo stesso che intendete voi, sia chiaro – amore per la vita che conducono, amore incondizionato verso tutto ciò che è bello e anche brutto perché non importa se piace o meno ma l’importante è che faccia parte di te, è dentro di te, è la tua vita che lo costruisce e tu non puoi fare a meno di amarlo perché significa amare te stesso (e quindi gli altri, uomini, animali, alberi e quant’altro che ti rende quello che sei) perché (senza scadere in sterili questioni teologiche o filosofiche su cui i Visigoti del futuro ci pisceranno sopra) il fatto di amare quello che fa parte della tua vita significa trovare il senso vero e recondito della vita stessa… Che non è cercare il piacere incondizionato o una presunta felicità, non è rincorrere illusioni che non ci appartengono davvero, ma è apprezzare ogni singola nuvola del cielo quando ci svegliamo al mattino, è sentire nostra ogni esperienza che la vita ci riserba senza pensare che sarebbe potuto andare meglio o che vorremmo trovarci in una situazione diversa da quella che la vita richiede per noi. Questa è la sottile quanto immensa differenza tra vivere ed esistere. Il tempo a nostra disposizione è limitato e l’unico modo per non rimpiangerlo è viverlo, non contemplarlo. Lottate per provare ciò che la vita vi nasconde da qualche parte. Nessuno lo potrà fare per voi. Sognate, sognate si, ma dopo cercate di dare un senso tangibile al vostro sogno.
La vita è una commistione di due cose: la lotta per raggiungere ciò che desideriamo, e ogni singolo inconveniente incontrato durante questa lotta… Inconvenienti che, senza rendercene conto, sono ciò che rende davvero la nostra vita ciò che è e deve essere: una meravigliosa avventura. 

martedì 28 dicembre 2010

Il Formaggio senza buchi: una storia di dipendenza

Qui tutto passa
Senza fare rumore
Bene accetto

Fino all’età dell’adolescenza (età in cui inizio ad aprire i miei orizzonti) il formaggio con i buchi non mi era mai piaciuto. Un sapore strano, gommoso, fastidioso, che profumava troppo di mucche, orologi e montagne. Poi imparai ad apprezzarlo. Tutto nella vita può essere apprezzato. Basta volerlo.
Amavo talmente tanto il formaggio che per un certo periodo lo mangiavo spesso anche appena prima di pranzo, e quasi tutte le sere. Ricordo che il mattino dopo camminavo con la mano sulla pancia ed ero convinto di sentirla sempre più grossa del giorno prima, ed era una cosa continua. “Quel formaggio sarà la mia rovina” pensavo. Non avevo tutti i torti.
Un’estate delle tante che passai da mia zia su quei vecchi pazzi colli di Cuccaro Vetere, lessi su un vecchia rivista che il formaggio ha proprietà che possono causare dipendenza, in pratica la stessa cosa che succede con la nicotina solo che quando ti tagliano l’emmenthal al banco non ci appiccicano sopra un adesivo del tipo “Il formaggio nuoce gravemente al tuo peso”. 

Il tizio al banco si limita a sorridere ingenuamente con quel dannato di cappellino di carta in testa e con un coltellaccio in mano e a chiedere “lei cosa prende?” e io chiamato in causa sussurro “un etto di Asiago” o quel che diavolo era, quasi cercando di non farmi sentire dal resto del mondo, e lui me lo taglia e me lo incarta con cura, magari me lo mette in qualche bella bustina trasparente che adesso non ricordo e io esco dal supermercato bello felice pensando che poi ne mangerò un pezzo quella sera stessa, e nel pensare questa cosa mi sento tanto simile a un cocainomane a cui hanno appena regalato 10 grammi. Poi inizio a pensare che se apro l’incarto per mangiarne un pezzo poi dovrò mangiare al più presto anche tutto il resto perché altrimenti inizia ad ammuffire… Solitamente basta poco, se si cerca di risparmiare pezzi qua e là per conservare il formaggio il più a lungo possibile non passa molto tempo che la muffa se ne impossessa come un virus letale, o come un tumore maligno che attacca lentamente le cellule del malato-formaggione. La prima, la seconda, la terza volta ("andare e ho visto!" citazione necessaria). Con la scusa di questa muffa del cazzo avevo praticamente finito un etto di Asiago in tre giorni o forse meno. Non era il formaggio a spaventarmi, non era nemmeno la dipendenza in sé, quanto piuttosto che fosse una dipendenza alimentare. Io, come tanti altri esseri umani nel mondo, attratto da cibarie buone e squisitamente superflue, mentre la solita solfa della gang frutta&verdura continua a venir ripetuta ininterrottamente dai soliti che si intromettono nelle tue abitudini alimentari, come i nutrizionisti trasformati in testimoni nei TG o opinionisti nei talk show. 
Alla fine convinsero anche me, che quando abbandonai per sempre la via del formaggio intrapresi quella di bietole e spinaci, ma se da un lato mi sentivo libero dalla dipendenza maledetta dall’ altra ero incatenato in quella benevola, dove se non hai un piatto di verdura la sera perché hai dimenticato di andarla a comprare ed ecco la paranoia è pronta che ti aspetta dietro l’angolo. Io non mi sono mai preoccupato perché a tavola mi mancava il formaggio.
Dipendenza alimentare? Non solo il formaggio, ma anche il caffè. Se vi svegliate la mattina e vi chiedete come mai non riuscireste a sopravvivere senza la vostra “dose” quotidiana di caffé nero espresso con due zollette di zucchero di canna bello caldo avete scoperto il perché, ma probabilmente lo sapevate già. Sono io quello che scopre le cose in ritardo.
Fatto sta che il caffè la mattina mi era praticamente indispensabile per evitare di crollare nel treno prima di raggiungere l’università, e lo stesso dicasi per il ritorno. Come me, tanti altri.
Che la dipendenza fosse allora motivata? Anche il formaggio fornisce quel calcio che è “indispensabile per affrontare la giornata” (come scrivono da secoli sulle scatole dei cereali insieme a tante altre cazzate ma ormai non ha più nessuna importanza).
Questa santa fissa del formaggio non è mai stata in realtà un vero dilemma, ma con gli anni ha costituito per me la metafora di un rapporto nei confronti del cibo spesso poco salutare a livello di quantità/qualità che alla fine mi indusse a cambiare qualcosa nelle mie abitudini ormai radicate. Il formaggio era un cibo proibito. Non faceva male di per sé: ma era buono, e in quanto buono calorico, in quanto calorico evitabile. Conteneva grassi animali come il burro, quelli da “evitare come la peste” se si hanno problemi di peso. Non che io abbia avuto seri problemi di peso, i più normali sulla faccia della terra, il classico chilo di troppo, ma di cosa si deve preoccupare la società se non di mali diffusi come questi? Cure contro l’obesità? Gli obesi sono ben pochi se confrontati con chi ha semplicemente quel peso (e pancia) in più che fanno la differenza.

domenica 5 dicembre 2010

Essere scrittori dentro. Ovvero, il mondo secondo Stef.

Non so proprio che diamine dirvi.

A dire il vero, non so nemmeno perché ho iniziato a scrivere. Probabilmente perché non potevo farne a meno. Ho delle cose da dire. Avrei voluto tenerle per me, in realtà. Ma poi ho pensato che a qualcuno potevano interessare. Fammele buttare giù, mi sono detto. Non si sa mai. E poi non volevo assomigliare a quel giovane Holden che non aveva mai voglia di fare un cazzo e non avrebbe mai detto quello che aveva da dire se non ci fosse stato Salinger a prestargli la sua voce. Poi chi vuole leggere leggerà. Non sono fatti miei.

Il pallino della scrittura l’ho sempre avuto, ma non so perché ho continuato a conservarlo anche dopo essermi accorto di come nulla di quello che amavo leggere o scrivere fosse credibile ormai già dopo la prima metà degli anni ’80, ossia quando sono nato io. Sono cresciuto nella classica famiglia dove tutti guardano con curiosità a questa tua passione ma senza mai prenderti sul serio. Nessuno crede che tu diventerai mai uno scrittore, anche se sorridono facendoti pensare il contrario. Probabilmente hanno ragione, ma spesso pensano che tu non abbia nemmeno un cazzo da dire. Vorrei vederli alle prese con una penna e un moleskine in mano, dove appuntare i loro pensieri e le loro sensazioni. Di cosa scriveranno oggi? Di quanto è stata emozionante la serata con i cognati di Milano in quella fantastica pizzeria con la televisione e Sky incorporato per poter vedere le partite di Champions azzannando una buona margherita? O forse a quanto rimane da pagare di bollette, o al fatto che la macchina nuova abbia bisogno di una buona ripulita, e che forse ci sarebbe anche bisogno di fare un salto al supermarket a comprare i croccantini per il micio?

La normalità mi ha rotto, ragazzi. Ma guai a dire una cosa del genere. Sarebbe come mettere in pericolo la maschera che milioni di persone che abbiano la sfortuna di interloquire con te hanno faticosamente decorato e piantato in faccia alla propria vita, senza mai avere il dubbio che potesse esistere un’alternativa. E tu vorresti forse contraddirli? Panico… saresti un vagabondo, un nullatenente, un ingenuo. Forse anche un imbecille. Forse anche un pazzo. L’avventura? Forse apparteneva agli anni ’50… Pensi che qualche pezzo grosso ti pubblicherà mai semplicemente perché si è innamorato di te come è successo con Maksim? Sei un povero coglione.  

Gli scrittori di adesso io non li capisco. E la cosa triste è che chi vuole essere scrittore lo dice perché vuole diventare uno di loro. Vorrebbe vendere migliaia di copie, diventare ricco ed essere invitato ai talk show ed avere l’illusione di essere una persona in gamba. Ma del resto come dargli torto? Esistono forse alternative?
 I corsi di scrittura creativa saranno anche utili a far crescere il talento nelle persone non analfabete, e sicuramente non si può dire che siano una brutta cosa. Ma per uno che si sente scrittore DENTRO, una cosa del genere potrebbe essergli fatale, più o meno come fanno le lezioni scolastiche delle maestre ottuse che spiegano Petrarca a quei ragazzi che si sono già letti la bibliografia di Melville durante l’estate (ne esistono, fidatevi). Cioè, cercano di tirare fuori la creatività, ma così facendo a mio parere , mentre la stimolano in alcuni, possono spegnerla in altri. Sono da prendere con le pinze: possono essere utili guide, dare suggerimenti e consigli utili. Ma se davvero vuoi SCRIVERE, non battere parole a macchina, esci di casa, vivi, e leggi, divora libri come se divorassi patatine al formaggio, poi mettiti davanti ad un foglio di carta e fai uscire pensieri emozioni sensazioni e credici in quello che scrivi e sii eccitato. Deve essere un'eccitazione quasi sessuale. 

Che vadano al diavolo puntini, punti e virgola, parentesi tonde e robe simili se possono rendere il testo scorrevole ma per farlo inibiscono la vostra capacità di COMUNICARE qualcosa. Non è importante il contenuto di quello che scrivete, potete fare una bella e dettagliata descrizione anche della pasta e fagioli che avete mangiato ieri, con lo sgorgare dell’olio crudo sul sughetto marrone e gli sforzi fatti per contenere i vostri gas intestinali, e sì, c’è chi l’ha fatto. Non crediate che la vostra storia debba essere figa, che debba a tutti i costi avere un senso condiviso dalla comunità. Finnegans Wake aveva forse un senso? Una trama? Non crediate di dover scrivere come se per farlo fosse necessario trasformarsi in professori universitari dotti e stempiati che magari hanno passato la vita su una sedia a commentare libri, masturbarsi, guardare i servizi speciali di SuperQuark e a decantare agli amici quanto in passato fossero brillanti. L’unica maledetta cosa che conta è quello che ci mettete dentro, la passione, il calore umano. Se voi credete in quello che scrivete, anche se quello che avete scritto è una cagata, anche se non avete usato le virgole nei punti giusti, o se avete DAVVERO parlato della pasta e fagioli che avete mangiato ieri (anche il cibo merita le sue descrizioni), credetemi, sarà qualcosa che varrà la pena leggere

Solo una cosa vi chiedo: fate attenzione ai congiuntivi, perché non è proprio il massimo leggere cose tipo “e se ci schianteressimo contro il muro?”.

mercoledì 1 dicembre 2010

Una concezione umana del camminare

Provo sempre una strana sensazione prima di entrare a Milano Centrale. Come se sentissi già l’odore dei piccioni che sovrastano i pali della luce e del sudore di impiegati grassocci che si fermano alla Mondadori per i 10 minuti della pausa pranzo.
 
Ogni volta, il treno passa in questa grande galleria corridoio buio e sfocato e immensa stazione spaziale dell’eternità, eterna come il meccanismo di una città che non si ferma mai e ingrana sempre più fino a contorcersi nei suoi stessi movimenti. Più la vedo e più mi convinco che Milano non sia una città. E’ una macchina. Se Gaia è un essere vivente, Milano è proprio una gigantesca fottuta macchina.
E quando scendi da lì ti senti travolto da un fiume di gente che è come se fosse sputato dal treno per essere inghiottito dalla metropolitana, come due puttane che si passano la saliva da una bocca all’altra, e tu rifletti di camminare per le stesse strade percorse da Hemingway negli anni ’40 e intorno c’è solo desolazione.
Una palude che può mettere alla prova qualsiasi filantropismo. 
Eppure una sottile emozione mi pervade perché ricordo di tutte le volte che passavo da qui per andarmene in giro per l’Europa ed era una tappa obbligata come la Route 66 per il coast-to-coast. L’oscurità finta della metropoli che non dorme mai (anche se ogni tanto dovrebbe). 

Piazza Duomo era come me la ricordavo. Grande e piena di gente. Uno schermo gigante proiettava immagini di fiori dai volti umani che cantavano qualche pubblicità di un qualsiasi prodotto uscito da una qualsiasi fabbrica milanese del cazzo mentre la gente in piazza si preparava ad un comizio di Beppe Grillo e i piccioni scagazzavano dappertutto e forse gli unici che in quel vivai non ti guardavano con odio erano i giovani ragazzi neri che cercavano di vendermi le loro cianfrusaglie taroccate che mai e poi mai avrebbero potuto essermi di qualche utilità, e mi sembrava troppo spendere qualcosa anche solo per togliermeli dai piedi. Scappai verso il duomo. Lo osservai, come si fa con una ragazza che ti affascina al primo sguardo. C’erano uomini e santi, demoni ed angeli, un’orgia di immagini e squisite fantasie cattoliche ammalianti e prorompenti di una maestosa eleganza. In quel momento lo amai. E rimasi a guardarlo come se intorno a me non ci fosse nessun altro.
Entrai in un bar a comprarmi una limonata e cercai di perdermi negli occhi di due ragazze che sedevano vicino a me mentre una si riposava sulle ginocchia dell’altra. Ero seduto sulle scale del Duomo, ad osservare la gente, e ogni tanto tiravo qualche sorso. C’era una donna che distoglieva la mia attenzione seduta alla mia sinistra. E parlava al suo telefono e tirava su con il naso, e più parlava e più sembrava che fosse la persona più piccola e infelice su questa terra.
“Non ne posso più! Mi dici cosa ho fatto? Eh? Me lo dici? Si… sono in centro a Milano… Dimmi cosa ho fatto. Gli avevo solo chiesto un favore e lui mi ha fatto passare i guai con il mio capo. E quelle serpi sempre a parlare. Non urlare mi dicevano! Io urlo quanto mi pare, se qualcuno mi aggredisce io urlo! Mi veniva voglia di dirle chiuditi quella boccaccia di merda! Si ora mi sto sfogando con te perché non sapevo chi chiamare… Si, sto in piazza Duomo…”
Si alzò e se ne andò. La guardai allontanarsi cercando di studiare il suo passo. Aveva il passo più infelice che avessi mai visto. Camminava come fosse un’ automa costruito ad hoc per essere produttivo ed efficiente. Ma camminava anche come se le sue emozioni gli impedissero di andare avanti in automatico per l’eternità. 

E se vi chiedete come faccia la camminata di una persona a rivelare tutto questo su di lei, è perché non avete una concezione molto umana del camminare.